02 Giu Lo sbarco dei Cerri
di Marcello Spirandelli
L’Associazione Arbit si occupa di recupero delle barche interne tradizionali. Qualcosa in più della barchetta nella vasca da bagno di vostro figlio, qualcosa di meno delle chiatte per il trasporto dei sedimenti. Qualcosa di diverso all’idea che forse vi sarete fatti di un’attività ingegneristica e noiosa.
Il nome e lo scopo sembrano particolarmente impegnativi e forse alquanto settoriali, fintantoché non si sperimenta nei fatti il reale significato della nostra attività. E’ infatti superfluo confidarvi che ciò che ci spinge a farci largo quasi a colpi di machete nel mezzo di una fitta vegetazione, sacrificando giornate estive o festive a costeggiare acquitrini infestanti di ogni tipo di volatile ronzante, non è ripagato soltanto dalle osservazioni tecniche, storiche e culturali che è possibile effettuare su relitti informi d’imbarcazioni dimenticate da decenni, ma anche dal brivido della scoperta, dallo scorcio che fa fremere di commozione il cuore del romantico moderno, dal tramonto inaspettato dietro a profili di canneti e di piccoli moli dimenticati.
Senza parlare dell’immaginazione che popola la Storia di tante piccole storie di umili pescatori che, anche senza voler scomodare il Manzoni, sappiamo aver contribuito a costruire il paesaggio che ci circonda, aver procreato figli che sono i nostri nonni, aver lasciato piccole barche che però fanno inscindibilmente parte del paesaggio, arco che fa vibrare le corde del cuore di un poeta. Questa magia, nel momento in cui scostiamo il ramo che cela la visione che cerchiamo, appartiene a noi.
E’ esattamente con questo spirito e con il medesimo entusiasmo che vi proponiamo, in poche righe e in qualche foto, il ricordo di un viaggio, compiuto con lo stesso ardimento che condusse molti esploratori alla ricerca delle sorgenti del Nilo e che ha portato Roberto e il sottoscritto alla scoperta di quello che per alcuni potrebbe essere semplicemente una palude maleodorante, ma che rappresenta invece uno di questi luoghi dell’anima. Vi parliamo oggi dello sbarco del Cerri sul Lago di Chiusi. In questo bacino racchiuso da salici e canneti, sporcato di terra etrusca e umbra sembra che il tempo si sia fermato in un’epoca di cui scorgiamo ancora colori e odori, sentendo tra le frasche riecheggiare risa ed imprecazioni di uomini che recuperavano sulle loro piccole e precarie barchette, con il pescato, la sopravvivenza per un’altra giornata.
Con l’aiuto di un fuoristrada che abbiamo scoperto utile per la campagna umbra quanto per la Parigi Dakar, abbiamo raggiunto lo sbarco. Non so dire se sia stato più arduo decifrare le indicazioni forniteci, non senza incertezza e difficoltà interpretative da due anziani avventori del circolo di Vaiano o tradurle in un tragitto coerente, in mezzo alla difficoltà di raggiungere il luogo segnalato.
Non è facile arrivare fin qui. Lasciando l’automobile in località Rengone (tra Villastrada e le Torri) si deve poi scendere a piedi per cinquecento metri lungo una scomoda strada di campagna. L’unica alternativa praticabile (ma non in automobile) sono i due chilometri di sterrata pianeggiante da imboccare poco prima della Serena. Il paradiso del trekking: l’ideale per sfoggiare coltellino svizzero e manuale delle piccole marmotte.
L’ormeggio si trova nella zona meridionale del lago di Chiusi, caratterizzata da una estesa palude. Prende il nome dalla famiglia Cerri che occupava il vicino podere e non, come noi stessi siamo stati erroneamente portati a pensare, alla botanica. Tra i numerosi salici, troviamo soltanto due barche: una è stata tirata in secca e ha una forma che richiama quella delle barche del Trasimeno; l’altra è ancora in uso ed è ormeggiata a pochi metri di distanza.
Che tipo di imbarcazione incontriamo? Si tratta di una tipica barca del lago di Chiusi e Montepulciano con capitino (a prua) e capitino grande (a poppa). Non ha più i rampini, probabilmente tolti quando è stata rivestita di vetroresina. Come dotazione troviamo un remo (pagaia) che tradizionalmente viene utilizzato stando seduti sul capitino di prua (navigando apparentemente al contrario). Vi è poi un lungo palo, chiamato menatoio, per uscire da una zona paludosa o per muoversi nei canali dei canneti (i viaggi). Santanacchio (sassola) ricavato da un contenitore in plastica, usato per togliere l’acqua dall’imbarcazione: ciò non deve far temere gli animi maggiormente sensibili che potrebbero sentirsi cogliere da terror panico temendo di assistere al progressivo innalzamento del livello delle acque interne man mano che ci si allontana dalla riva: l’acqua da togliere e quella piovana.
Non sappiamo se da questa breve disamina possa essere sorta in voi la tentazione di dare un’occhiata al molo sullo stagno accanto a casa vostra o se avremo ridestato il vostro desiderio sopito di esplorare l’Orinoco su una canoa. Ci sentiremo paghi se, con le nostre foto e le nostre parole, avremo risvegliato in voi le sensazioni che ci hanno colto quel pomeriggio sul lago di Chiusi, toccando piccole barche che ci hanno raccontato molte storie e che ora, tramite queste righe, raccontano ormai anche la nostra.
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